Oh captain, my captain

a cura di Giusy Celestini

 

Quando imparai a guidare l’automobile, ben sedici anni fa, ero una cosetta tutta terrore e zero sicurezza. Convinta ci fosse una teoria che si basasse più sulla guida in sé che sul motore a scoppio (del quale non ricordo assolutamente niente), avevo la sensazione che mi mancasse ogni volta una nozione fondamentale da sapere e ricordare. Avevo la perenne convinzione di essere impreparata. Ci vollero diverse lezioni e un ferreo lavoro su me stessa per scardinare l’idea salda che mi ero fatta su tutta la questione. Scoprii quindi che non esisteva nessun manuale che spiegasse in maniera semplice ed elementare (escludendo del tutto la parte meccanica, articolata e completamente ignota, per me) quanto fosse importante levare il piede dall’acceleratore ogni qualvolta si aveva la necessità di cambiare marcia. Capii che per guidare un’automobile, ciò che mi rimaneva da fare era tentare. Nella teoria sono sempre stata una forte, una che non aveva bisogno di chissà quante ore di studio serrato, una che aveva un corretto eloquio e una buonissima memoria, una che lasciava intendere di conoscere a menadito l’intero capitolo mentre spesso capitava che ne conoscessi solo mezzo paragrafo per bene e il resto per sentito dire. La pratica, invece, mi ha sempre un po’ spaventata. Ho sempre avuto la sensazione di non essere mai troppo all’altezza delle aspettative riposte e la parola “pratica”, nel mio inconscio, è sempre somigliata a “dimostrare”, che per una timida introversa cronica come me, può significare amputarsi un braccio. Quindi queste lezioni di guida pratica, nelle quali non era necessario prendere appunti, furono per me piuttosto confuse e impegnative. Avevo però un istruttore di guida favoloso che ricordo ancora con infinito affetto e che rese divertente e ironico ogni mio tentativo andato a male. Non serviva imboccare una strada contromano per farlo arrabbiare: lui non solo non si arrabbiava MAI ma rideva a crepapelle! Un giorno mi disse che imparare a guidare a Roma mi avrebbe dato la possibilità, che pochi hanno, di riuscire a guidare con destrezza in tutte le città d’Italia (non è difficile crederlo, se si pensa che qui è il caos estremo sempre). Ma il concetto reale e importante che ho sentito subito mio e che mi ha poi aperto la possibilità di comprendere quanto anche la guida di un’automobile rappresentasse un po’ una metafora della vita, fu questo:

 

“Quando stai guidando, trovandoti una fila fittissima di automobili accanto in ambo i lati e senti salirti una sensazione di panico impressionante perché pensi possano stringerti o semplicemente non credi di riuscire a passare in quello spazio appena davanti a te che ti appare minuscolo, concentrati sulla tua strada. Guarda la tua corsia, dimentica completamente che ci sono altre automobili accanto a te e guarda dritto, senza distrarti. Nessuno si permetterà di osteggiare la tua rotta se camminerai sicura lungo la tua via senza mai pensare di invadere una corsia che non ti appartiene. E lì, anche lì dove poco prima avresti scommesso di non riuscire a passare, capirai quanto spazio c’era e quanto fossero inutili tutti quei problemi fatti in precedenza”.

 

Confesso che tuttora metto in atto questa tecnica per me infallibile, quando mi trovo a guidare in stradine impervie e sconosciute. E tento di metterla in atto soprattutto per quanto riguarda la mia vita. Quando tutto mi appare incredibilmente confuso e appesantito da risultati che non gratificano, da sensazioni che osteggiano le intenzioni, da stati d’animo che manco sulla Luna a gravità zero sarebbero così altalenanti, io provo a fermarmi un attimo (‘provo’ lo sottolineerei, se mi è concesso) e a guardare dritto davanti a me. Cerco di focalizzare gli obiettivi, le necessità impellenti, i progetti a brevissima scadenza. E cancello il resto. Per un attimo, senza dimenticarmene o privarli della loro importanza. Semplicemente, razionalizzo. La cosa non mi riesce facile, non posso assolutamente mentire sull’intera questione né tantomeno passare per la piccola Guru che decisamente non sono. Ma mantenere la mia corsia e non zigzagare di continuo invadendo prima un pensiero, poi un intento e poi un barlume di senno, è ciò che mi impongo spesso. Perché alla fine quello che ho imparato da questi miei naufragi esistenziali è che la rotta deve essere ferrea e tenace, e che se il mare è in burrasca e ci si trova nel bel mezzo, bisogna affidarsi alla forza impavida delle nostre scelte. Più crediamo nelle nostre possibilità e nel bagliore di un’alba che presto rischiarerà il nostro orizzonte e meno l’abisso ci apparirà così minaccioso. Il concetto è di una semplicità quasi disarmante, ma nella pratica, nella MIA pratica, tutto assume un peso specifico consistente e insormontabile. Qui si tratta di allenamento, un po’ come quando ci si cimenta per la prima volta alla guida di un’automobile e mai si crederebbe di poterla un giorno dominare e gestire alla perfezione. Qui si tratta esattamente della medesima cosa. E il mio personale allenamento è un incessante gioco di immagini, con me alla guida di un mezzo che non esiste ma che sorreggo con tutte le mie forze, guardando dritto davanti a me, senza distrarmi mai, senza perdere mai di vista l’obiettivo. Anche quando non si sa di preciso di quale obiettivo si stia parlando, tra i mille che perseguiamo, non è forse meraviglioso rasserenarsi al pensiero di essere usciti finalmente da un mare in piena tempesta? Perché ne usciamo, tranquilli. Ne usciamo ogni volta.

 

Mi accingo a fare progetti per certi versi audaci. Nella realtà delle cose, già li sto facendo da tempo. Tutto ciò mi spaventa, mi rende l’essere più felice del mondo e mi fa sentire di una vulnerabilità che la metà sarebbe di sicuro di troppo. Tutto e il contrario di tutto, in pratica. Una, nessuna e centomila, al mio solito. Avrò spesso bisogno della mia rotta, del mio sguardo verso l’orizzonte, della certezza di quello che penso. Anche quando vacillerò, anche quando la paura non mi farà ricordare neppure come mi chiamo per intero. Ma la forza di un sogno, di un progetto, di una realizzazione per come la si desidera, deve essere un motore talmente potente da fagocitare il resto, tutto il resto, e portarci in avanti, sempre.

Di mari in tempesta ne incontreremo a centinaia e non sarà mai uguale, non sarà mai lo stesso identico sconforto a minacciarci. Ma il tentare ostinatamente mi ha resa un’automobilista provetta (che in una città come Roma, vi assicuro, è una caratteristica della quale andare molto fieri). Mi renderà dunque una persona migliore. A piccoli passi e con andature da gambero che mi metteranno fortemente in imbarazzo, certo, ma il tentare è la via giusta, è la via imprescindibile, è la via vincente. Sempre. E non è un caso se quest’anno uno dei miei pattern preferiti, giunto a far compagnia alle righe, ai pois e a tutti i miei noti accostamenti improbabili, riguarda le ancore. Il mio viaggio appare faticoso e a tratti ostico, ma mi zavorrerò ben bene, prima o poi, e la mia ancora saldamente mi sosterrà e sancirà orgogliosamente la fine del mio lungo girovagare. Fino al prossimo audace progetto e a tutti gli smarrimenti annessi, nei quali imparerò a riconoscermi ogni volta.

 

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